Ormai “Stanislavskij” è una rubrica (questo è il post precedente).
Ed è tornata.
Storie di attori che cercano di immedesimarsi nel personaggio che interpretano, fino a rovinare le propria vita.
Era un uomo abituato al pensiero critico, grande amante di Shakespeare e della filosofia kantiana. Ma proprio a lui venne assegnata la parte di Renzo Bossi. Grande fu la sua disperazione quando seppe la notizia e per un attimo imprecò contro i sacrifici imposti dal mestiere. Poi si rassegnò: in fondo la vocazione per il teatro imponeva degli obblighi. Non aveva scelta. Bruciò tutti i libri e s’indebitò per comprare una BMW di seconda mano. Il suo eloquio lasciò il posto a una sciagurata commistione di slang padanista e lessico da bimbominkia. Ogni segno in qualche modo riconducibile ad attività encefalica fu bandito. Dopo un estenuante tirocinio imparò a trascorrere le giornate in una bolla di vuoto ozioso, o nel tentativo di superare il suo record in qualche videogame. Tentò persino di estorcere la paghetta settimanale a suo padre, un vegliardo ricoverato all’ospizio che ancora gli rinfacciava di aver intrapreso la carriera di attore. Aveva una risposta per qualsiasi dubbio: “Scialla”. E alle donne diceva d’essere figlio di un uomo importante.
Lo avvisarano con un laconico comunicato: “Sarai Casaleggio nel prossimo film sulla storia della robotica”. Aveva poco tempo per prepararsi. “Non sarà facile”, pensò notando l’assenza di circuiti elettronici all’interno del suo corpo.
Quando quelli della sua squadra di calcetto gli chiesero di giocare, lui rifiutò: “Sono più forti gli altri”. Con chi credevano di parlare? Lui non si mischiava con i perdenti, da quando aveva ottenuto la parte di Daniele Capezzone in una fiction sulla storia del servilismo. Dopo mesi di esercizio, era in grado di individuare il carro del vincitore anche bendato.